Taccuini di Sardegna – Macomer Archeologia Industriale 1 Parte

Taccuini di Sardegna – Macomer Archeologia Industriale 1 Parte

Macomer e Archeologia Industriale: Un Viaggio tra Storia, Leggende e Decadenza Industriale

I resti abbandonati della periferia industriale di Macomer raccontano una storia fatta di ambizioni, successi e decadenza, una storia che s’intreccia con l’epoca della piccola rivoluzione industriale che attraversò questa cittadina situata ai piedi della catena del Marghine. Qui, un tempo, il progresso e l’innovazione avevano dato vita a un fervente polo industriale, oggi testimoniato solo da ruderi silenziosi che sembrano raccontare il passaggio di un’era ormai tramontata.

La nascita di un centro industriale

Il boom economico che investì Macomer tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo fu il risultato di una serie di fortunate coincidenze geografiche, logistiche e climatiche. La cittadina, già un importante snodo lungo la strada Sassari-Cagliari, venne scelta come punto nevralgico per la nascente linea ferroviaria e per la tratta trasversale Nuoro-Bosa. Era il 1880, e in questo scenario si staglia la figura di Benjamin Piercy, un ingegnere inglese di grande visione che contribuì in maniera determinante allo sviluppo della rete ferroviaria sarda. Piercy, che aveva stabilito la sua residenza principale nell’altopiano di Campeda, a pochi chilometri da Macomer, comprese immediatamente le potenzialità della zona, e iniziò a investirvi risorse e progetti, ponendo le basi per quella che sarebbe diventata una fiorente periferia industriale.

Ma non fu solo l’infrastruttura ferroviaria a rendere Macomer un punto strategico. Il clima mite, secco e ventoso, si rivelò ideale per due attività fondamentali dell’epoca: la stagionatura dei formaggi e la lavorazione della lana. Questi fattori, insieme alla qualità del pascolo che contribuiva alla produzione di un latte pregiato, attrassero l’attenzione di imprenditori locali e stranieri. Fu così che, attorno al costone noto come “rocca del nido del corvo”, si sviluppò un’intera zona industriale.

La rivoluzione industriale sarda: i protagonisti

Tra i primi a cogliere le opportunità offerte da Macomer vi furono i fratelli Angelo e Giovanni Battista Bozzano, figli di un armatore e commerciante ligure. Già prima del 1892, i Bozzano avevano avviato attività casearie nella regione del Marghine, ma fu solo con l’espansione della rete ferroviaria e la crescente domanda di prodotti caseari che la loro impresa decollò. Riuscirono a creare una rete di esportazioni che culminò con l’iscrizione della loro società alla Camera di Commercio di New York nel 1908. La storia dei Bozzano è una delle tante che raccontano il periodo d’oro di Macomer, un’epoca in cui la cittadina si trasformò in un centro pulsante di attività economiche.

Altri nomi illustri si aggiunsero a questa piccola rivoluzione industriale, come Gustavo Salmon, un banchiere livornese di origini ebraiche, emigrato dall’Algeria. Salmon fondò nel 1895 un caseificio con un investimento iniziale di 270.000 lire in marenghi d’oro, una somma considerevole per l’epoca. La sua attività prosperò e contribuì ulteriormente alla crescita economica della zona.

Il caseificio Albano e le sfide del progresso

Tra i più importanti stabilimenti dell’epoca vi è il caseificio Albano, fondato nel 1905 da Vincenzo Albano, un imprenditore lucano già noto per la sua attività di esportazione di pecorino negli Stati Uniti. La fabbrica, ubicata nell’odierna via Sulis, inizialmente prosperò grazie alla creazione di un efficiente triangolo commerciale tra Napoli, Macomer e New York. Tuttavia, la storia dell’azienda fu costellata di difficoltà: prematuri lutti familiari, crisi economiche e le prime tensioni sociali con i pastori del circondario, che accusavano gli Albano di sfruttamento eccessivo.

Nel 1920, dopo la morte di Vincenzo Albano e dei suoi figli, l’azienda passò nelle mani di Teresa De Rosa, vedova del fondatore, che con grande determinazione riuscì a mantenere attiva l’impresa nonostante le avversità. Teresa, conosciuta come “la vedova”, non solo guidò il caseificio, ma si dedicò anche a opere benefiche per la comunità di Macomer. Tra queste, la ricostruzione dell’altare maggiore della chiesa di San Pantaleo e la creazione di un oratorio per la parrocchia.

Ma la storia del caseificio Albano, come quella di molte altre imprese dell’epoca, fu segnata dalle turbolenze economiche globali. La grande crisi americana del 1929 e la svalutazione del dollaro nel 1933 ridussero notevolmente le esportazioni verso New York, mettendo a dura prova la resistenza dell’azienda. Nonostante ciò, l’impresa riuscì a riprendersi e a riprendere le esportazioni, anche se la seconda guerra mondiale avrebbe ulteriormente complicato i rapporti commerciali con gli Stati Uniti.

L’inevitabile declino

Dopo la guerra, la situazione non migliorò per il caseificio Albano. Nel 1947, la società si separò dal caseificio Di Trani, fondato nel settembre dello stesso anno da Michele Di Trani, cognato di Teresa De Rosa. La separazione segnò l’inizio di un lento declino per entrambe le aziende, che non riuscirono a sopravvivere ai cambiamenti economici e sociali degli anni successivi. Il caseificio Albano chiuse definitivamente i battenti nel 1979, mentre il Di Trani cessò le attività nel 1980.

Con la chiusura di queste aziende, si concluse un capitolo importante della storia industriale di Macomer. Gli edifici un tempo brulicanti di operai e macchinari rimasero vuoti e silenziosi, lasciando spazio al degrado e all’abbandono. Oggi, quei luoghi raccontano di un’epoca passata, di una piccola rivoluzione industriale che trasformò Macomer in un centro di innovazione e progresso, per poi abbandonarla al suo destino.

La memoria storica e le leggende

Passeggiando tra i ruderi della periferia industriale di Macomer, è impossibile non avvertire il peso della storia e delle leggende che si intrecciano con questi luoghi. Tra le storie più affascinanti c’è quella del “fantasma della vedova Albano”, che si dice ancora vegli sul vecchio caseificio. Alcuni abitanti locali raccontano di aver visto, nelle notti di luna piena, una figura femminile aggirarsi tra i resti dello stabilimento, come se volesse proteggere il lavoro di una vita, e vegliare su quella che un tempo fu una delle più importanti attività industriali della zona.

La memoria di quegli anni, però, non si limita alle leggende. Gli archivi storici conservano ancora documenti, fotografie e testimonianze di un’epoca che fu segnata da successi e drammi, ma anche da un forte senso di comunità e di appartenenza. Questi ricordi, seppur sbiaditi dal tempo, rappresentano un patrimonio inestimabile che merita di essere riscoperto e valorizzato.

Oggi, l’archeologia industriale di Macomer offre un’importante occasione di riflessione sul passato e sul futuro, su come le piccole rivoluzioni possano cambiare il destino di intere comunità e su come la memoria storica possa sopravvivere all’oblio del tempo. Vi diamo appuntamento con la seconda parte

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